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Arsenico e vecchi merletti

Mag 28, 2021

                                                                            di Paolo Bugatto

E’ bene augurarsi tutto il bene dalla Nazionale. Anche a dispetto delle 32 sconfitte consecutive nel Sei Nazioni. Quindi primo: sgombrare il campo dagli equivoci e pensare al gioco. E se parliamo di gioco si ha come l’impressione che il nostro rugby, rappresentato dalle gesta della Nazionale, abbia perso la sua identità. Sarebbe stucchevole riannodare i fili del passato e ritornare al 1997, all’epoca di Coste, a quella squadra che con destrezza ruba le chiavi che aprono all’azzurro le porte del rugby che conta. Quello fa parte del passato ed è bene lasciare quell’immagine vincente nelle teche del nostro palmares. E’ quello che è accaduto dopo che deve interessarci. Perchè dopo l’esperimento Mascioletti, la chiamata di Bradley Johnstone, quella di John Kirwan e Pierre Berbizier (ultimo cittì residente a Roma), si ha sempre l’impressione che l’Italia non ne abbia azzeccata una nel capitolo dei commissari tecnici. Da Mallet, piuttosto staccato dal rugby reale, a Brunel lasciato solo prima dalla Fir e poi da quella squadra che ha impiegato un “nanosecondo” a trovare la sua comfort zone quando nel bresciano ha preso casa anche O’Shea. Allenatori o gente di rugby (a posteriori si può dire) che vestivano l’ovale di casa nostra con un outfit improprio rispetto alle qualità dei giocatori e anche all’evoluzione del gioco. Brunel è quello che ci si è avvicinato di più ma non è stato aiutato né dal sistema nè dalla squadra che ha finito per prendergli la mano. O’Shea ha fatto pagare all’Italia la sua ipocrita gestione del gruppo e da quello che poteva spacciarsi come il Woodward “italiano” è arrivato molto poco sul piano del gioco. La scelta di Franco Smith attraversa altre logiche. La staffetta premondiale non ha aiutato gli azzurri in Giappone e la pandemia ha fatto il resto. Ma almeno sul piano fisico i risultati si sono visti, almeno a leggere i dati restituiti dal GPS dei giocatori. Avrebbe dovuto girare per i club ma non c’è stata mezza possibilità e con la mascherina a rugby si gioca male. Il Sei Nazioni e la Autumn cup hanno mostrato una squadra che è sempre quella dell’eterno potenziale: senza un sistema, una strada che individui una direzione. Il nostro rugby è alla deriva e c’è bisogno di un nocchiero che lo riporti a veleggiare. Di tempo perso abbiamo riempito gli scatoloni passando da un presidente all’altro. E la scelta di Crowley sconcerta. E’ in grado di rimettere in carreggiata la Nazionale? Il pedigree non si discute. Ma appunto, parliamo di passato anche in questo caso. Che poi siano gli staff a svolgere il lavoro sporco questo è anche vero. Le diversità di opinioni all’interno del gruppo del Benetton hanno superato il muro della Ghirada e fatto capire la scelta di strambare all’interno degli spogliatoi di Monigo. Crowley alla fine troverà in maglia azzurra gli stessi giocatori che lo hanno “sfiduciato” in biancoverde. Questione di equilibri che non possono non essere considerati in un rugby che cambia alla velocità della luce, che non ha bisogno di divisioni e che oltre a vincere ha bisogno di convincere delle proprie scelte.