“Non è una vittoria monca”. È il titolo del pezzo pubblicato all’indomani della vittoria contro la Georgia. Apriti cielo: critiche a destra e a manca per una posizione che sembrava volutamente fuori dal coro, al limite della piaggeria nei confronti della nuova governance. Due errori in uno da parte di chi ancora prova a ricondurre il pensiero di chi scrive, ora a un personaggio, domani a un altro. Perdonate la delusione: scriviamo come ci alziamo la mattina, in relazione a ciò che vediamo.
Due errori, dicevamo. Il primo: se la Nazionale vince o perde, non è merito del presidente di turno. In campo vanno i giocatori, e in panchina c’è un capo allenatore. L’unico merito che può avere un presidente è quello di aver scelto un allenatore bravo. E questo sito è pieno di pezzi in cui a Cesare è stato dato ciò che è di Cesare.
Il secondo: la vittoria contro la Georgia non era monca, e ne abbiamo avuto la prova. L’Italia, quindici giorni fa, ha vinto perché superiore in tutto: tatticamente, tecnicamente e fisicamente. Solo la partita della vita dei georgiani, le diverse assenze e qualche incidente di percorso non hanno consentito all’Italia di vincere con ampio margine. Un successo di misura, dunque, e un risultato bugiardo.
La conferma è arrivata sabato con gli All Blacks: una sconfitta maturata sul finale, sempre per la regola non scritta che nel rugby, salvo casi rari, vince la squadra più forte. E la Nuova Zelanda è più forte rispetto all’Italia. Ma gli azzurri, al 70°, erano sul 6 a 17, con un tabellino che non si muoveva dagli ultimi minuti del primo tempo. I “Tuttineri” hanno impiegato tempo e fatica per avere ragione di una Nazionale italiana mai doma e sempre sul pezzo.
Un’Italia che deve continuare a crescere per evitare gli errori che ancora si porta dietro e che rappresentano la linea di demarcazione tra una Federazione che staziona stabilmente nei primi cinque posti del ranking e una che galleggia tra la sesta e la dodicesima posizione. Troppi palloni regalati, troppi errori di esecuzione ed errate valutazioni strategiche nei diversi momenti della partita rappresentano il limite degli azzurri.
Il risultato finale di 11 a 29, che consegna agli almanacchi una partita sulla carta senza storia, è frutto di quell’ultimo sanguinoso pallone perso al 79°, che ha permesso ai neozelandesi di arrotondare un punteggio che, fino a quel momento, aveva del clamoroso, contro una Nuova Zelanda in “formazione tipo”.
La fotografia dell’Italia è tutta in quell’ultimo minuto: una squadra che osa, al limite dell’incoscienza, ma che non ha paura di attaccare, di proporsi e di proporre il proprio gioco. Tutto bello, sia chiaro. Ma, come sottolineato poc’anzi, ci sono momenti e situazioni. Contro gli All Blacks, al 79°, con un risultato clamoroso dopo la grandine venuta giù con l’Argentina, o conservi il possesso o dai una pedata al pallone per mandarlo dove sorge il sole. Soprattutto dopo aver marcato una splendida meta e aver dimostrato di essere “sul pezzo”. Tanto i margini per ribaltare la partita proprio non c’erano.
Sono questi gli errori che bisogna evitare, e su questo c’è ancora da lavorare. Dunque, se con la Georgia non è stata una vittoria monca, con la Nuova Zelanda non è stata una sconfitta onorevole, una di quelle a cui eravamo abituati, con un passivo pesante ma tanto cuore e tanta “trincea” per 80 minuti. È stata una sconfitta meritata per le forze viste in campo, ma frutto di una battaglia a tutto campo. L’Italia c’è, e al prossimo Sei Nazioni non farà da sparring partner.
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