di Massimo Gallo
È passata una settimana da quando Aldo Guerra ci ha lasciati, e io, che vivo di parole, non sono stato in grado di scrivere poche righe per ricordarlo. Ci ho provato fin da subito, senza riuscirci: la tristezza di non saperlo più su un campo da rugby prendeva il sopravvento. Ancora adesso non so da dove iniziare per descriverlo, cercando, tra l’altro, di non cadere nella retorica. E allora parto dalla prima immagine che ho di lui. Parliamo degli anni ’80. Aldo guidava la prima squadra del Rugby Benevento. Era agosto o settembre ed era iniziata la preparazione precampionato.
All’epoca non si andava troppo per il sottile: si doveva faticare, correre tanto. Lo spauracchio era il “giro della morte”: i rugbisti beneventani di una certa età sanno di cosa parlo. Si partiva dal campo, si faceva il giro lungo salendo verso Villa dei Papi e si tornava indietro dal bivio per il Perrillo. E così c’era chi provava a “imboscarsi” per evitare tale supplizio.
Ero sul piazzale del Pacevecchia con mio padre e Franco Fiore. Vedo il gruppone arrivare di corsa: dalla fila si stacca un ragazzo che reclama tempo per un bisogno fisiologico. S’infila nello spogliatoio principale. Aldo se ne accorge, prende una “piroccola” (un bastone di un metro, n.d.r.) e lo segue. Dopo 30 secondi noto la scena: il ragazzo esce di corsa ridendo e Aldo lo insegue con la “piroccola” in mano e il suo inconfondibile sorriso. Getta il bastone e riprende a correre con i ragazzi. Una scena di complicità e tenerezza tra Aldo e uno dei suoi giocatori. Tutto questo tra le risate generali.
Questo era Aldo Guerra: la sua essenza in un episodio. La gioia nella fatica. Era un po’ allenatore, un po’ papà, un po’ amico, un po’ fratello: era l’essenza del rugby. Un rugby semplice, ma professionale. Il rugby “pane e salame” fuori dal campo, ma fatto di impegno e serietà quando si trattava di agonismo. Un impegno che lo portò ad un passo dall’impresa, sempre negli anni ’80.
Parlo della più bella emozione sportiva della mia giovinezza, ma anche della più cocente delusione. Imeva Benevento – Serigamma Brescia: bastava poco per il paradiso. Ma gli spalti stracolmi del Pacevecchia furono più una pressione che un aiuto per il XV biancoceleste. Non finì bene, ma le emozioni che seppe regalare quella squadra rimarranno indelebili.
E poi tante trasferte dietro ai suoi figli, molte delle quali condivise: il “Brucato” a Roma con il IV Circolo, che finiva sempre con un pranzo sul prato in stile “cenone di Natale”. La fantastica avventura con il Sannio, vissuta a mille con Vincenzo in campo, a cui dagli spalti dava sempre il consiglio giusto.
La sua dedizione verso i ragazzi convocati nelle Nazionali, affinché si presentassero in perfetta forma ai test. Cronometro in mano e ripetute sullo stradone del fiume Calore, che ancora oggi sono nella testa di molti di loro.
Ed è questo l’unico modo che riesco a usare per ricordarlo: su un campo, dietro ai ragazzi, con il rugby nel sangue. Lo sapeva bene Rita, sua moglie, che aveva sposato un uomo e un padre buono come il pane, ma anche la sua passione. A lei, Vincenzo e Danilo va il mio pensiero: pensate alla fortuna di averlo avuto, non alla sfortuna di averlo perso.
Io, personalmente, non lo vedevo da un po’, complice la distanza tra Roma e Benevento, ma l’ultima volta, un paio di anni fa, come sempre mi ha messo la mano sulla spalla. Facendo una breve passeggiata, ci siamo fatti quella che è stata la nostra ultima chiacchierata. Buon viaggio, Aldù: porta in trasferta gli angeli e falli cantare sul pullman!
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